lunedì 8 ottobre 2007

'Io non soffro per amore'




Come ci si racconta oltre i luoghi comuni e le tentazioni dei manuali pret-a-porter.
Non amo particolarmente guide, manuali, diari di autoconoscenza, gruppi di autoaiuto,
catene di S.Antonio. Pure sono e sento di appartenere a quella memoria che ci ha viste 'insieme',
a raccontarci, scoprirci, perlustrarci, magari con tanto di specchietto e speculum, per
ri-conoscerci, ri-trovarsi, identificarsi.
Perchè le donne si parlavano, e essere 'separatiste' e rivendicarlo faceva parte del percorso.
Il racconto, il rispecchiamento, per uscire dalla condizione di isolamento che ci voleva figlie madri sorelle amanti è stato un passaggio necessario, magari malvisto, maldigerito, male interpretato.
Come ogni 'minoranza' in cerca di identificazione ed emancipazione è stato necessario il ripiegarsi su se stesse, e il racconto, di se.
Questo è un patrimonio, che le donne 'sanno'.
Le storie orali, il passaparola, il chiacchiericcio magari...dirà qualcuno.
Tutto quello che ci rende capaci di tessere la tela delle nostre vite ed emozioni, quando non ci si infila nei territori ambigui della rivalità e della competizione, in cui siamo molto brave, a perderci.
Perchè questo libro.
Perchè appartiene alla storia, a mio avviso, del 'regalo' di se per tracciare piste in cui ritrovarsi.
E perchè attraverso le proprie 'fatiche' e lacrime versate per attraversare le nevrosi delle relazioni, ripercorre in qualche modo la storia delle modificazioni sociali e di costume che hanno reso la donna quello che oggi è: consapevole della propria libertà di vivere sesso, amori, famiglia, maternità con tutta la contraddizione di non esserne attribuita per 'diritto dovere' e convenzioni.
Un passo in particolare mi colpiva, una riflessione, e cioè che le giovani donne di oggi sappino, che la storia non è sempre stata così. Che non è sempre stato 'facile', ammesso che lo sia. Ma di certo tutto ciò che ora ci sembra scontato e dovuto, solo poche manciate di anni fa non era.
Essere sole, separate, vivere in piena autonomia le relazioni, financo quelle 'sconquassate' e caotiche da compulsione e borderline affettive, era segno di stigma, se non si era all'interno della patente di 'appartenenza' in quanto moglie, madre o sorella. Così come la conquista del diritto alla propria autonomia e al lavoro.
Non un vero e proprio 'recupero' della memoria, certo che no, ma di certo leggere questo libro fa fatto riaffiorare un atmosfera di 'racconto' di se che recupera il senso più autentico del 'baratto' e dello scambio di vita vissuta.

martedì 25 settembre 2007

30 anni di Radio Onda Rossa



Pino & Gianfranco al trentennale con la canzone su Velerio Verbano.
31 maggio 2007 - Centro Sociale Ex Snia Viscosa - Roma.

mercoledì 9 maggio 2007

Punk a Roma

Vivevo in un quartiere di fasci, ai confini con Ponte Milvio dove invece stavano i miei amici, su da me scritte minacciose dappertutto, piazze inaccessibili, strade proibite…i fasci li ho odiati da subito, un sincero odio di classe, per la loro prepotenza a scuola, i soldi, le lacoste, i levis, i rayban, nel mio quartiere erano tutti figli di papà, il peggio del peggio…Una piazza in particolare era ritrovo di cosiddetti picchiatori, la parola “picchiatore” in quegli anni aveva un significato univoco ed era associata a “stupratore”, “missino”, “pariolino”, fascista appunto…quindi anch’io come molti dovetti applicare strane geografie al non-mio quartiere, scorciatoie poco frequentate, giri complicati per arrivare alla fermata dell’autobus…questa sorta di clandestinità è durata fino a quando non è arrivato il punk, li le cose si sono complicate ulteriormente…

Nel 75/76 andavo ancora alle medie, disegnavo e ascoltavo rock’n’roll, quello di Gene Vincent (be bop a lula era tra i 45giri di mio padre, insieme ai Giganti, Antoine, Mina etc), mentre i miei amici già ascoltavano Genesis, Jetro Tull, Soft Machine, PFM, Banco (che mi portarono a vedere dal vivo al Convento Occupato, quello di Stella Rossa).
Eravamo tutti in fissa per la musica, ridisegnavamo le copertine degli lp che ci piacevano e ci passavamo i giornali musicali dell’epoca, Ciao2001, Gong, Muzak, incominciammo pure a strimpellare e ad andare a qualche corteo.
Poi nel 77 con le scuole superiori ci dividemmo, loro al tecnico a Monte Mario io al liceo artistico a Ponte Milvio, loro molto impegnati politicamente io subito risucchiato in occupazione (durata quasi ininterrottamente i due anni che frequentai il liceo) con un sacco di gruppettari e frikkettoni di buona famiglia. Era un liceo “debole”, ci venivano sempre a difendere i compagni del Civis dall’altra parte del Tevere…
Mi ricordo giornate plumbee, notizie continue di aggressioni e ammazzamenti, Walter Rossi su tutti. Ricordo un pomeriggio che siamo andati sul posto dove l'avevano ucciso, pieno di polizia e blindati, era vietato fare slogan, era vietato anche stare li, a un certo punto un compagno grande e grosso cominciò a gridare rabbioso e tutti dietro insieme a lui con le lacrime agli occhi...
Ricordo compagne di liceo che strappavano la tessera della FGC, i filtri che facevano i fasci e che ti dovevi sdraiare per terra sull'autobus per non farti cioccare, il divieto di assembramento, benzina sotto le porte, le stragi…e la musica? Niente, chitarrine acustiche e barbuti rompipalle, giri country e poesia, non ricordo una canzone italiana ribelle, che parlasse della quotidianetà dura di quei tempi...
A metà anno la svolta, la folgorazione davanti ad una copertina dei Ramones e lo stupore di una canzone che partiva con un “…anz, vai, trai!!!” un uan tu tri in tedesco porcoddio! Chi cazzo sono? No, non sono fasci c’hanno i capelli lunghi e i jeans strappati…questa è la mia musica!
Le provocazioni dei Sex Pistols in ritardo ma cominciavano ad arrivare anche qui, le spille, le lamette e le svastiche, la famosa storia dei punk fasci, che creò un sacco di malintesi fino ai primi anni 80 con la famosa megarissa autonomi-punk al Palasport quando suonarono i B52…per me fu quasi istantaneo distanziarmi da quelli di Londra, tanto che punk divenne pank da scrivere sui muri tra slogan di guerra e di dolore…i compagni ci schifavano, i fasci al quartiere ci minacciarono pesantemente (nel frattempo Rik mio amico d’infanzia si coinvolse nell’avventura) ma senza bastonarci, dovevamo sembrare proprio innocui, dei kalimero sfigati…provarono pure a chiederci lumi sul nostro anarconichilismo, questo nel 78 quando cominciarono a vaneggiare il fronte unito contro il sistema, avevano scoperto gli indiani d’america e Bobby Sand, il mis gli faceva schifo e sono finiti a fare macelleria coi NAR…sempre mmerde!
La musica fu la svolta…mentre i fratelli maggiori non ci cagavano, non volevano manco sentir parlare di punk, magari con tutto quello che succedeva c’avevano pure ragione, fatto sta che fummo lasciati soli per molto tempo, fino a quando non conobbi Max, di qualche anno più grande ma malato di rock deviato. Max Sboro lo chiamavano al Visconti, lui era trasteverino doc, perché s’atteggiava da coatto rockettaro in tempi non sospetti…bè Max ci spiegò che prima dei Ramones c’erano stati gli Stooges, i New York Dolls, Lou Reed e che secondo lui il nichilismo non risolveva, bisognava stare dentro il movimento in qualche modo…magari anche con le chitarre.
Dall’estate del 78 la fascinazione del punk sfumò in qualcosa di più consapevole, Max ci fece leggere Stirner e 1984 di Orwell, ascoltavamo i dischi di Faust’O e vivevamo il terrore e il panico che c’erano in strada senza stare dentro nessuna organizzazione…
Nel 79 formammo un gruppo, un trio, basso chitarra e batteria, Apologia di Reato si chiamava…suonammo dal vivo due volte, una al primo festival rock italiano all’Espero, guadagnandoci una sonora stroncatura su Ciao2001 e poi in piazza per i Comitati Autonomi della Magliana in uno sterrato in mezzo ai palazzoni.
Quell'anno aprì il Uonna mitica discoteca sulla Cassia e io per almeno tre anni disegnai tutte le locandine delle serate in cambio di consumazioni e pochi spicci...anche grazie a quel postaccio il punk finalmente conquistò Roma...ma noi c’eravamo già ritirati nell’ombra, lontani dall’anarchia preconfezionata dello stile punk e dall’ortodossia del movimento. Abbiamo continuato a suonare, disegnare, ascoltare tutto quello che la scena musicale italiana di allora proponeva (Faust'O, Ivan Cattaneo, Revolver, Judas, Skiantos), sempre parecchio per i cazzi nostri, attirandoci pure le attenzioni non proprio benevole degli stessi punketti di allora che ci vedevano troppo ambigui, poco classificabili...Fuori dai giri prestabiliti abbiamo conosciuto tanta gente che dalle peggio periferie fuggiva l’oppressione di quegli anni e si metteva a suonare i pezzi di Lou Reed sui gradini delle piazze, noi stavamo a Santa Maria in Trastevere, ci passavamo sigarette e birre e pigliavamo per il culo quelli che arrivavano spiritati per lo skizzetto (giuro è l’ultimo) rimediato de straforo…me ne ricordo tanti, pure più grandi di me, che prima si facevano e che non so come ma la musica, il punk ma più in generale il ritorno del ribellismo rock, aveva scosso e risvegliato, mò s’intrippavano con le chitarre, i concerti, fare gruppi, rubare dischi, cantine per suonare rock’n’roll sgangherato e rabbioso a Torre Angela a Centocelle a Spinaceto (Elettroshock, Uniplux, Lux Fero), si vestivano di nero, poveri e ribelli, e l’eroina sembrava ricacciata indietro…almeno per un pò è stato così, non per molto in verità…

Baci Kris

lunedì 7 maggio 2007

Ottobre 1977


Un souvenir dai miei anni settanta, quando avevo 15 anni...
baci e lamette
a presto
kris

sabato 5 maggio 2007


"Sembra, dunque, che noi dobbiamo alla memoria praticamente tutto ciò che abbiamo o siamo, che le nostre idee o concezioni siano suo prodotto e che la nostra percezione, pensiero e movimenti quotidiani derivino da questa fonte. La memoria raccoglie gli innumerevoli fenomeni della nostra esistenza in un tutto unico; e poichè i nostri corpi sarebbero sparsi nella polvere degli atomi che li compongono se non fossero tenuti insieme dall'attrazione della materia, così la nostra coscienza si frantumerebbe in tanti pezzi quanti sono i secondi che abbiamo vissuto, se non fosse per quella forza unificante della nostra memoria".
Ewald Hering(1870)

mercoledì 25 aprile 2007

Foto di Tano d'amico

Facevo tardi, tutte le notti, ascoltando la radio.
Intorno a me tutto sembrava in corsa.
Il rumore del mondo fuori arrivava forte.
Anche lì, in quella palazzina di periferia,
che conservava la campagna in un fazzoletto di orti e galline.
Le mie amiche avevano solo un sogno, sposarsi, presto.
E figliare.
Ma c’era la mia radio.
Quella porta aperta sulla possibilità di cambiare il destino.
[..]

Era il passaggio fra le medie e le superiori.
Avevo 14 anni. Ascoltavo radio radicale,allora,
perchè mi piaceva la voce di Daniela Gara, roca e passionale.
E le femministe,e la non violenza, garofani, e rose nel pugno.
Non capivo bene ancora il senso di tutto ciò.
Ma volevo capire.
E restavo sveglia, ad ascoltare le dirette fiume alla radio,
e gli echi del movimento che da lì non gridava troppo forte.
Nessun proclama roboante, ancora no.
Bevevo avida quei discorsi da grandi, che diventavano miei.
La cantina di fronte casa la domenica si faceva teatrino delle prime feste tra ragazzi.
I lenti e le lampadine colorate a mano.
I giochi della bottiglia.
Baglioni, e i cugini di campagna.
Ecco, loro, erano tutti i mei cugini di campagna.
E non mi riconoscevano,non più.
Li ho lasciati lì. Mentre aspettavo di entrare a scuola,e la musica cambiava.
Il rock,e le note sparate di chitarra ancora non lo capivo,
meglio Neyl Young, o De Andrè.
Che iniziavo a suonare anch'io, seduta a terra, sui gradini della scuola.
Essere 'altro' da quello che pensavano tutti.
Un segno distintivo, un simbolo, una camicia larga,
portata fuori dai yeans,i sandali infradito indiani,
gilet, comprati all'usato. Una divisa.
Per entrare nell'esercito della ribellione.
Per esserci, per sentirsi,riconoscersi,contare.
La scuola sembrava un grande tempio delle occasioni.
Studiare, il futuro, i voti.. chissenefrega.
Ora il rumore si sentiva, eccome.
La non violenza, quella rosa nel pugno che disegnavo sui muri della classe col pennarello rosso,ora era appassita.
L'avevo messa nel fucile del celerino ad una marcia fatta a Piazza Navona
accompagnata da mio padre, prima.
Prima di avere ascoltato tutto quel rumore sordo,
di slogan rimbalzati fra le strade strette,
del tonfo secco delle spranghe,sulle teste dei 'fascisti',
e le catene,e il fumo che faceva piangere,
e scappa...corri, che ci prendono.
In corsa, contro.
Contro tutto quello che mi faceva essere convinta
che valeva la pena rischiare il culo,
piuttosto che sentirmi morta.
Mettersi in pericolo,è il gioco preferito a quell'età.
Entrare in un disegno che non sai, il rischio che si corre.
E io l'ho corso, con tutta la convinzione che ti viene
dall'incontro con le persone e i luoghi che ti 'formano'.
I miei compagni 'grandi', quelli che parlano in assemblea,
quelli che sono diventati i miei maestri.
Bruno,col suo cappotto grigio,faceva il quinto.
Era un uomo fatto per me.
Quel giorno,quando hanno ucciso Moro,
sui gradini di scuola mi disse:ora sono cazzi nostri...
e non capivo,ancora.
Spiegami Bruno, fammi capire.
La differenza, a volte, la fanno certi incontri.
Poi, il cuore, ed il cervello giusto,
e la politica diventa la tua vita.
La cosa che più mi turba, oggi,
è pensare al tempo come ad un grande cerchio.
In cui ci si entra dentro come criceti.

Giri la ruota a vuoto, se non lo sai.
Il tempo mio continua, non si è fermato lì,
fra quei banchi vuoti coi professori ad aspettarci,
e il fumo di lacrimogeni e spari
che hanno segnato di rosso i marciapiedi della mia adolescenza.
Dentro ai segreti rimasti tali.
Di quelle scelte di 'compromesso' che hanno fatto la differenza.
Il tempo mio continua, come può continuare tutta l'utopia,
quella che vorrei restasse.
Il resto, quel progetto autoritario e folle per prendersi il potere,
l'ho gettato via.
L'utopia, che mi ha salvato dalla droga,
che nel frattempo ha ucciso tanti miei amici,
e dalle altre 'droghe', che ci volevano e ci vogliono coglioni.
L'utopia, che passa anche nelle mani dei figli,
che perdono le tracce della memoria,
se non la si racconta giusta.